Due italiani su tre hanno le idee chiare sul biotestamento. Mentre in Parlamento (e non solo) infuria la discussione su come regolare le disposizioni sul fine vita, un’indagine dell’Osservatorio Scienza e Società di Observa indica che il 66% degli italiani sa definire con sicurezza che cos’è il testamento biologico. La percentuale delle risposte corrette sale addirittura al 92% nel caso dei laureati.
All’informazione sul tema ha contribuito probabilmente la grande rilevanza data dai media al caso di Eluana Englaro tra la fine del 2008 e l’inzio di quest’anno, ma il dato colpisce anche gli esperti. “Sul testamento biologico gli italiani si dimostrano soprendentemente più ferrati che sul federalismo fiscale, che appena il 30% sa definire, ma anche rispetto a grandi temi come il cambiamento climatico” osserva Massimiano Bucchi, coordinatore dell’indagine e docente presso l’Università di Trento.
L’indagine, compiuta su un campione rappresentativo della popolazione sopra ai 15 anni, mostra che, dal 2005 ad oggi, gli italiani sono diventati progressivamente più sensibili ai temi bioetici. Oltre un italiano su due (51%, rispetto al 58% del 2005) ritiene che nel caso di gravi malattie senza speranze di guarigione e con perdita di coscienza del paziente, spetti a ciascun individuo dare indicazioni preventive sulle proprie cure. Il 31% pensa invece che la decisione spetti invece al parente più prossimo mentre il 13% delega la responsabilità al personale medico (il 9% nel 2005).
Le differenze non sembrerebbero imputabili tanto al credo religioso o alla collocazione geografica degli intervistati, quanto piuttosto al loro livello di istruzione. Tra chi propende per il diritto del paziende di indicare, attraverso il testamento biologico, a quali trattamenti venire sottoposto, l’80% sostiene la facoltà di decidere se rifiutare farmaci o terapie (80%); il 73% di rifiutare cibo o acqua per via artificiale o al contrario di chiedere di essere mantenuto in vita con ogni mezzo possibile (64%).
“L’aumentata sensibilità per questi temi non è un peculiarità nazionale e non è riconducibile a una particolare riflessione sui temi medico-scientifici – sottolinea Bucchi – ma fa parte di un processo di autodeterminazione dell’individuo che vuole un maggiore controllo sulla sua sfera individuale comune a tutte le società sviluppate”.